Seconda parte dell’intervista a Piero Dominici a cura di Gianfranco Marini. Che rapporto esiste tra la proposta di un nuovo contratto sociale e la questione educativa?

Il cuore del ragionamento di Dominici è la “questione educativa”. Un “nuovo contratto sociale” è pensabile solo come risultato di una trasformazione culturale capace di innescare un cambiamento anche economico, politico e sociale solo se vi sarà la capacità, insieme teorica e politica, di impostare un progetto politico di “lunga durata” al cui centro vi siano i “processi educativi”. Questo è possibile solo abbandonando la “politica scolastica” degli ultimi decenni, non solo perché estemporanea, priva di respiro, mirata al risparmio e a tarare la scuola sul mercato, ma soprattutto perché priva di un’idea forte di educazione e apprendimento, idea forte che per Dominici è data dal “pensiero critico” e da una “formazione umanistica” che, superando le “false dicotomie”, si concretizzi in un “nuovo umanesimo” educato alla complessità per “affrontare i dilemmi della società ipercomplessa”

 

Il nesso tra Nuovo Contratto sociale e educazione

Al di là di alcuni miei intimi convincimenti (educazione = cittadinanza / inclusione / democrazia – una scuola diseguale e non di qualità pre-requisito fondamentale di una società diseguale, asimmetrica**, esclusiva) che segnano, da sempre, la mia vita non soltanto lavorativa e professionale, e che – non posso nasconderlo – mi forniscono motivazioni fortissime in tutto ciò che faccio, nella prospettiva d’analisi, che sviluppo da anni, tra le due “questioni” esiste sostanzialmente un nesso di causalità, anche se, in questa sede ne parlerò in termini, quanto meno, di una correlazione forte e stringente. In maniera estremamente semplice e immediata: se per “contratto sociale” intendiamo quel sistema di regole, accordi e convenzioni che rende possibile la cd. “società” (NOI, il sistema di relazioni, le reti e i meccanismi sociali etc.), sostituendo il vecchio “stato di natura”, e da cui la società stessa può/deve scaturire e se per “società” (le definizioni sono molteplici e riconducibili ad una letteratura scientifica vastissima e articolata) intendiamo, con le nostre parole, un insieme di attori sociali, in qualche modo, vincolati l’uno all’altro da un sistema di relazioni, rapporti e interazioni di vario genere, tra cui si instaurano forme di scambio, cooperazione, collaborazione e divisione di ruoli e compiti, che assicurano la sopravvivenza, la coesione e la riproduzione dell’insieme/sistema stesso e dei membri che lo costituiscono (per eventuali approfondimenti, cfr. lo storico “Dizionario di Sociologia” di Luciano Gallino, grande sociologo e scienziato sociale, intellettuale vero), ebbene non possiamo non prendere atto di come, proprio nella cosiddetta società della conoscenza, sempre più (iper)complessa e iperconnessa, e sempre più basata su una “razionalità limitata” (contrariamente alle narrazioni e storytelling dominanti), ai limiti del paradosso (se pensiamo all’infinita disponibilità di dati e informazioni), il rapporto esistente tra la proposta di un “nuovo contratto sociale” (Dominici, 2003 e sgg.) e la questione educativa si riveli a dir poco intima, strettissima. Proprio perché quel sistema di accordi e convenzioni, che rendono possibile la “società” (mi ripeto sistema di relazioni e interazioni, caratterizzato anche da segni, simboli, credenze, rappresentazioni, modelli di comportamento, modelli culturali, sistemi di orientamento valoriale e conoscitivo etc.), contribuendo a definirne le “forme” dell’interazione e la stratificazione sociale, a livello locale e globale, è sempre più segnato, plasmato, strutturato dalla qualità (concetto complesso, da sciogliere) dell’istruzione, dell’educazione e dei processi educativi; dalle opportunità, talvolta negate anche in partenza, di accedere ad un’istruzione adeguata, alle informazioni, alla conoscenza, alla cultura: da sempre, veri e propri agenti di cittadinanza e di democratizzazione. Proprio in questi termini, siamo costretti a confrontarci con quella che ho definito “società asimmetrica” – una società che garantisce cittadinanza e inclusione soltanto dal punto di vista del riconoscimento giuridico – e, appunto, con l’urgenza di un “nuovo contratto sociale”, questione che proposi e affrontai io stesso diversi anni fa, anche in alcune mie pubblicazioni. Di fatto, sono cambiate le condizioni e le variabili che costituiscono e caratterizzano concetti, fenomeni e processi complessi come quelli legati alla libertà, all’eguaglianza, alla cittadinanza, all’inclusione, alla democrazia. Di recente, ne ha parlato perfino Mark Zuckerberg di Facebook…allora (banalmente) ci possiamo credere, questa urgenza esiste, quanto meno tale questione cruciale tornerà (si spera) a caratterizzare l’agenda della Politica (si spera, anche se non c’è da essere ottimisti) e i differenti climi d’opinione che condizionano, a loro volta, le stesse condizioni di praticabilità relative alle strategie ed alle politiche necessarie. Probabilmente, nella nostra epoca, ipertecnologica e iperconnessa, in cui Google e social networks sembrano poter risolvere ogni nostro problema informativo e conoscitivo, più credibile lui di studiosi che lavorano e fanno ricerca, da una vita, su questi temi. Ma questa è un’altra questione, su cui magari torneremo in un’altra conversazione. Per questa volta, mi limito a rilevare come, senza dubbio, la nostra sia un’epoca che, dal punto di vista culturale, non accetta, quasi rifiuta, i saperi e la loro complessità e interdisciplinarità; che considera la teoria, il pensiero critico, la riflessione, il “tempo” per la riflessione, “cose” del tutto inutili e fuorvianti rispetto al “saper fare” ed alla concretezza, ai numeri ed alle evidenze (?) della vita, alla “nuova velocità” che è diventata sinonimo anche di intelligenza/capacità, e non soltanto di efficienza; un’epoca che, paradossalmente rispetto al rifiuto della teoria e del pensiero critico di cui sopra, si fida e si affida a “guru” e visionari di ogni tipo e a “venditori di soluzioni semplici” per ogni problema (meglio se di lingua inglese…un discorso che riguarda anche la letteratura, scientifica e non, citata in pubblicazioni e articoli divulgativi).

La questione culturale come questione cruciale

Come ho avuto modo di affermare in passato: «Il processo evolutivo degli ecosistemi sociali sta progredendo verso una ridefinizione degli spazi relazionali e delle asimmetrie, che porta con sé l’esigenza di un “nuovo contratto sociale” (Dominici, 2003). Di conseguenza, diventa ancor più urgente una riformulazione del pensiero e dei saperi che coinvolga direttamente sia la Scuola che l’Università, purtroppo ancora pensate e organizzate come “entità” separate le cui politiche (?) andrebbero progettate in chiave sistemica; una riformulazione del pensiero e dei saperi in prospettiva aperta e multidisciplinare, che sappia (evidentemente) tener conto e valorizzare la specializzazione di conoscenze e competenze, superando quella visione distorta e fuorviante che la vede incompatibile con la complessità e l’approccio che essa sviluppa. Quanto detto dovrebbe, poi, concretizzarsi in proposte e strategie educative funzionali – nel lungo periodo – alla costruzione sociale del cambiamento e ad un’innovazione inclusiva che, ricordiamolo, se imposti esclusivamente come processi dall’alto, si riveleranno sempre un cambiamento esclusivo, per pochi e di breve periodo. Occorre prendere definitivamente coscienza che questo è il vero “fattore” strategico del cambiamento e dei processi di innovazione: il “fattore” culturale, una variabile complessa in grado, nel lungo periodo, di innescare e accompagnare i processi economici, politici e sociali. E il livello strategico è, ancora una volta, quello concernente i processi educativi di cui sono protagoniste (dovrebbero esserlo) la Scuola, sopra ogni cosa, e le altre agenzie di socializzazione che peraltro, in questi ultimi decenni, si son viste divorare da media, reti e gruppo dei pari lo spazio educativo e della socializzazione; è il livello cruciale dove è possibile educare e formare teste bene fatte (Montaigne) e non teste ben piene; è anche il livello strategico dove (almeno) provare a coltivare e praticare l’empatia, il pluralismo e il riconoscimento del valore della diversità per costruire società aperte e realmente inclusive, fondate su cultura della legalità, della prevenzione, della responsabilità, del rispetto, della non-discriminazione; infine, è il livello cruciale dove determinare le condizioni socioculturali per un ridimensionamento dell’egemonia dei valori individualistici ed egoistici, che hanno significativamente contribuito all’indebolimento del legame sociale e della Comunità. Percorsi che, inevitabilmente, si incrociano, fino a sovrapporsi, e che riguardano allo stesso tempo teoria e ricerca scientifica, scuola e università, cittadinanza e democrazia, eguaglianza delle condizioni di partenza e inclusione. Educazione e cittadinanza…Educazione è cittadinanza, educazione è possibilità di partecipazione, educazione è inclusione.

Costruzione della persona e del cittadino

La correlazione tra educazione e cittadinanza/inclusione si rivela, in tale prospettiva, ancor più evidente e conseguenziale. Perché non sono, e non saranno, la tecnologia e/o il digitale a determinare cittadinanza e inclusione o, nello specifico, a creare le famose “Teste ben fatte” (Montaigne). In tal senso, al di là di queste considerazioni preliminari, ci tengo a precisare che, a mio avviso, esiste un altro rischio, estremamente concreto: quello di pensare (e agire di conseguenza) che l’educazione digitale – e, con essa, la stessa cultura digitale …anzi le stesse culture digitali – sia una questione meramente “tecnica”, di “preparazione tecnica”, di “competenze” specifiche legate (esclusivamente) alla “natura” delle (nuove) tecnologie della connessione e dei nuovi ecosistemi/ambienti comunicativi (oltre che, evidentemente, agli ambienti lavorativi e professionali)». Mentre, nella prospettiva della complessità e di una visione critica e sistemica dei processi educativi e comunicativi, le dimensioni, le variabili, i parametri di misura da considerarsi sono ben altri e appartengono a molteplici dimensioni problematiche (dall’empatia al pensiero critico, dall’educazione alla complessità come educazione alla responsabilità all’educazione alla comunicazione etc. etc.) Questo è senz’altro uno dei punti essenziali che caratterizza/distingue nettamente il mio approccio, le ricerche e gli studi condotti. E lo caratterizza da oltre vent’anni, non da oggi. Attualmente, in molti si stanno ricredendo – o si sono già ricreduti – rispetto al “potere” del digitale di generare in sé e per sé inclusione e opportunità per tutti (verba volant, scripta manent). Siamo di fronte all’ennesima rivoluzione industriale importante, invasiva e pervasiva come nessuna delle precedenti: una rivoluzione che, senza mettere mano a educazione e formazione, aumenterà le distanze e accrescerà le numerose asimmetrie, già attualmente, così marcate ed evidenti. E così, invece di ammettere qualche errore di visione/prospettiva, le stesse definizioni di “competenze digitali” e/o di “educazione digitale” (stesso discorso si potrebbe fare per il concetto di “cittadinanza digitale”) vengono riviste ed estese fino a sostituire le precedenti. Ma “la” questione delle questioni riguarda – lo ripeto ancora una volta – l’approccio e il metodo che devono plasmare e accompagnare i processi educativi e formativi. È proprio su questi processi, d’altra parte, che si costruisce la Persona (prima) e il Cittadino (poi); è su questi processi che si definiscono le condizioni strutturali di un’innovazione inclusiva; è su questi processi che si possono edificare “società aperte”, ripensando appunto il “contratto sociale” (Dominici 1998 e sgg.).

Processi educativi e cambiamento culturale come motori dell’innovazione sociale

Come ho avuto modo di affermare più e più volte in questi anni, la lunga crisi che stiamo attraversando – spesso i momenti di crisi e quelli di innovazione coincidono – è soprattutto una crisi culturale e di civiltà, soltanto in parte economica. Una fase di transizione che ha riportato al centro del dibattito, anche se con grave ritardo, la questione educativa e culturale. D’altra parte, «La costruzione sociale e culturale della Persona, prima, e del cittadino, poi, sono processi complessi che devono (dovrebbero) essere attivati/innescati/accompagnati fin dai primi anni di vita e che non dovrebbero essere rimandati nel tempo: si tratta di pre-requisiti fondamentali e, allo stesso tempo, funzionali al tentativo di ricostituire/rafforzare un tessuto sociale estremamente indebolito, creando di fatto le condizioni – potremmo dire – “empiriche” per contrastare l’assenza di civismo e quel vuoto etico e di senso che, al di là delle rappresentazioni mediatiche e delle relative fiammate emotive, sembra diffondersi sempre di più, non soltanto tra le nuove generazioni. I “germi” della ben nota “questione culturale” che costituiscono i veri ostacoli all’affermazione di una vera innovazione (sociale e culturale) e di sistemi sociali più aperti e inclusivi. Questioni e problematiche che hanno profonde implicazioni perfino nella stessa ideazione/progettazione/definizione di qualsiasi modello o pratica di cittadinanza e partecipazione.
Come avrà compreso, ritengo tali questioni a dir poco strategiche e credo sia di fondamentale importanza inquadrarle in un discorso più complesso, e generale, di ripensamento di quello che ho definito “nuovo contratto sociale” (2003): un ripensamento/riformulazione che deve portare, a sua volta, ad una traduzione operativa funzionale alla definizione, progettazione e realizzazione di proposte e strategie educative. Perché questo è il livello cruciale del cambiamento culturale che è in grado, nel lungo periodo, di innescare e accompagnare quello economico, politico, sociale. E, come dico sempre, non c’è alcuno spazio per l’improvvisazione e/o le scorciatoie: il livello strategico è quello concernente i processi educativi (la scuola, sopra ogni cosa, e le altre agenzie di socializzazione)»

Innovazione partecipata

La partecipazione è “fatta” di processi di negoziazione, continua e costante, che devono articolarsi dal momento dell ’ideazione fino a quello della decisione; e, a questo livello, non è più possibile continuare a non fare i conti con i “cittadini reali” (passatemi il termine) che, al di là della questione “competenze digitali” (giustamente, molto dibattuta), si discostano in maniera significativa da quella figura quasi idealtipica di “cittadino ideale” (critico, informato, competente, in grado di interagire alla pari con la PA e, più in generale, con il potere), spesso immaginata e presa come riferimento da parte degli stessi decisori; allo stesso tempo, non è più possibile continuare a non fare i conti con variabili e criticità preoccupanti come l’ analfabetismo funzionale , la povertà educativa e, più in generale, le condizioni critiche in cui versano scuola e università che, da tempo, non stanno più svolgendo le loro funzioni di ascensori sociali. La cosiddetta “società civile” è destinata a rimanere anello debole (2000 e sgg.), all’interno delle dialettiche complesse e ambigue della prassi democratica.

Garantire l’uguaglianza delle situazioni di partenza al di là di ogni retorica

Oltretutto, dobbiamo prendere atto di trovarci «[…] all’interno di un orizzonte socioculturale, di prospettive – di discorso e azione – ma, soprattutto, di strategie (di breve periodo) tuttora fondate su una consapevolezza assolutamente parziale della multidimensionalità, dell’ambiguità e dell’imprevedibilità che contraddistinguono i processi di innovazione e cambiamento. Una consapevolezza, spesso soltanto dichiarata, che porta a ridurre, talvolta banalizzare, gli stessi concetti di comunicazione, condivisione, inclusione, cittadinanza, democrazia. Con il rischio, tra i tanti, di determinare, in maniera irrecuperabile, le condizioni strutturali di un’innovazione tecnologica senza cultura. Anche su questo aspetto siamo tornati a più riprese. Ci limitiamo a ribadire che parlare di inclusione, cittadinanza, democrazia digitale senza tentare almeno di contrastare fenomeni e processi che le rendono difficilmente realizzabili (ostacolando l’ innovazione aperta e inclusiva), equivale al legittimare i meccanismi di un contesto storico sociale sempre più segnato da disuguaglianze di carattere conoscitivo e culturale che definiscono in maniera netta la stratificazione sociale, anche a livello globale». Finché non sarà garantita l’eguaglianza delle condizioni di partenza, anche parlare di “cittadinanza” e “inclusione” rischia di diventare un esercizio puramente retorico. E – ci tengo a ribadirlo – non ci potrà essere alcuna cittadinanza digitale senza garantire i diritti di cittadinanza, oltre evidentemente a quelli della Persona. In tempi non sospetti, abbiamo proposto la definizione di “società asimmetrica”(2003), proprio in una fase estremamente delicata di mutamento, in cui le narrazioni egemoni sulla Rete e sulla rivoluzione digitale presentavano, quasi in termini di nesso di causalità, la relazione tra digitale e partecipazione, tra “digitale” e “fiducia” – tuttora confusa, non soltanto in politica, sia con la popolarità on line che con una certa idea/visione dell’immagine e della reputazione – tra digitale e inclusione; infine, tra digitale e cittadinanza.

Per ulteriori approfondimenti sul concetto, che abbiamo proposto e definito, e sulle tante questioni collegate, rimando ad un contributo per Il Sole 24 Ore proprio sulla “società asimmetrica”: Piero Dominici, La società asimmetrica e la centralità della “questione culturale”: le resistenze al cambiamento e le “leve” per innescarlo, Il Sole 24 Ore, 23/09/2015.

Nuovo Contratto sociale: le regole di ingaggio dio partecipazione e cittadinanza

D’altra parte, i concetti stessi di partecipazione e cittadinanza chiamano in causa una questione di carattere più generale, ma di fondamentale importanza: l’urgenza di ripensare il “contratto sociale” (2003) e, conseguentemente, di ridefinire le regole di ingaggio della cittadinanza e dell’inclusione. E, su questo terreno, non possiamo non prendere atto di un ritardo culturale importante, ribadendo con forza una nostra vecchia formula: non bastano “cittadini connessi”, servono cittadini criticamente formati e informati, educati al pensiero critico ed alla complessità, educati alla cittadinanza e non alla sudditanza, educati alla libertà ed alla responsabilità. Educati ad una cittadinanza (stesso discorso vale per la costruzione sociale di una cultura della legalità e/o di una cultura della prevenzione: si costruiscono a scuola!) che – bene esser chiari – è fatta di diritti, che devono essere conosciuti ma anche di doveri. In ogni caso, occorre agire e intervenire, con una certa urgenza, là dove si definiscono le condizioni strutturali di questa “società asimmetrica” e diseguale (scuola e università); là dove si producono, elaborano, distribuiscono informazioni e conoscenza, le “vere” risorse strategiche del nuovo ecosistema. Con la centralità, ancora una volta, posta sui processi educativi e formativi, sul capitale umano e le Persone che, a loro volta, devono contribuire attivamente a co-costruire uno spazio sociale e comunicativo in grado di generare e distribuire valore e, perché no, “fiducia”; vero e proprio dispositivo fondamentale per l’esistenza stessa dei sistemi sociali, ancor prima che democratici.

Preso atto delle caratteristiche dei nuovi ecosistemi sociali (1996) e della ipercomplessità (2000) che li caratterizza, ritengo che la sfida più importante sia, ancora una volta, quella di abilitare le persone, i cittadini (non soltanto nella loro veste di consumatori), a gestire, in maniera quanto più possibile consapevole e competente, i processi e le dinamiche che li riguardano da vicino e che contraddistinguono il nuovo ecosistema. In altre parole, è di vitale importanza creare le condizioni “strutturali” affinché sappiano abitare tali ecosistemi, sappiano abitare quello che di fatto è, non soltanto un nuovo spazio pubblico illimitato – in grado di definire le “identità”, le “soggettività” e lo spazio comunicativo pubblico in cui si realizzano ed evolvono – ma anche, e soprattutto, un Panopticon globale, all’interno del quale le logiche di controllo e sorveglianza totale erano, sono e saranno sempre quelle dominanti.
E come ripeto da anni: per questa ipercomplessità – lo ripetiamo ancora una volta – non bastano “cittadini connessi”, servono cittadini criticamente formati e informati, educati alla cittadinanza e non alla sudditanza…per abitudine culturale; cittadini in possesso di competenze non soltanto tecniche e/o digitali ma, soprattutto, educati e formati alla complessità e al “pensiero critico”; educati e formati a comprendere l’importanza della condivisione e della cooperazione per poter superare concretamente le vecchie logiche di possesso e controllo: perché condivisione e cooperazione sono essenziali nella produzione (sociale e collettiva) di conoscenza e cultura, i veri motori dell’innovazione; e devono essere educati e formati anche al “sapere condiviso”(2000), non tanto perché questi presupposti – a mio avviso strategici, vitali – rappresentano la “nuova utopia” da inseguire, quanto perché – ed è incredibile come, a tutti i livelli, ancora non ci sia consapevolezza e unità d’intenti – sono l’economia della condivisione (1998) e la società della conoscenza a richiedere elevati livelli di istruzione e formazione, oltre ad un aggiornamento continuo in ambito lavorativo e professionale (dati e ricerche su analfabetismo funzionale e povertà educativa restituiscono un quadro tutt’altro che rassicurante, e la cosa che mi fa più impressione è che ne parlavo quasi vent’anni fa…).

In tal senso, una cittadinanza “vera”, attiva e partecipe del bene comune e, più in generale, il cambiamento culturale profondo sono sempre il prodotto complesso, da una parte, di processi e meccanismi sociali che devono partire dal basso; dall’altra, dell’azione di quella società civile e di quella sfera pubblica, attualmente assorbite e fagocitate da una politica che ha tolto loro autonomia. Servono politiche (lungo periodo) che, oltre ad essere immaginate in un’ottica globale, vanno progettate e realizzate con una prospettiva sistemica, per poi essere costantemente valutate e monitorate nei loro effetti. Dimensioni completamente disattese, basti pensare p.e. all’assenza di una “vera” politica industriale nel nostro Paese. L’innovazione è processo complesso, anzi è complessità: istruzione, educazione, formazione – evidentemente – ne devono essere gli “assi portanti”, non un qualcosa che arriva “a valle” dei processi di mutamento. Altrimenti, saremo sempre costretti a rincorrere le accelerazioni dell’innovazione tecnologica , con pochissime speranze di raggiungerla e, allo stesso tempo, di metabolizzarne i cambiamenti indotti. I rischi – come dico sempre – rimangono quelli di un’innovazione tecnologica senza cultura e di una illusione della cittadinanza: una cittadinanza e una partecipazione, non negoziate e costruite socialmente e culturalmente all’interno di processi inclusivi, bensì imposte dall’alto senza calarsi, completamente e concretamente, nelle prospettive dei destinatari di queste azioni/strategie. Di coloro che sono chiamati ad esercitare la cittadinanza e la partecipazione, alimentandole costantemente. Saremo sempre più costretti a scegliere tra la “libertà/responsabilità di essere cittadini” e la “libertà/responsabilità di essere sudditi” (Dominici, 2000). In questo caso, una terza via non è data!

Allo stesso tempo, richiamando un vecchio contributo, esiste il rischio, estremamente concreto, di “una cittadinanza senza cittadini”. Di seguito il link all’articolo per Forum PA: Piero Dominici, Cittadinanza digitale. I rischi di una cittadinanza senza cittadini, Forum PA, 25/01/2016.

Per ciò che concerne, invece, l’idea/visione/narrazione, da anni egemone, di progettare/edificare le istituzioni educative e formative sul mercato e sulle specifiche richieste delle imprese rinvio all’articolo Ripensare l’educazione nell’era della rapida obsolescenza.

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L'Autore


Gianfranco Marini
Gianfranco Marini cerca di insegnare storia e filosofia nel liceo scientifico "G. Brotzu" di Quartu Sant'Elena (CA). È laureato in filosofia all'Università di Cagliari e in Tecnologia della comunicazione multimediale all'Università di Ferrara. Dal 2005 sperimenta l'utilizzo del Web e delle tecnologie digitali nell'apprendimento secondo la modalità del Blended Learning. Gestisce Aulablog e un canale YouTube, entrambi strumenti per la didattica digitale e disciplinare. Cura la rubrica AulaMagazine su scoop.it dedicata alle Tecnologie dell'apprendimento e della conoscenza.
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