Quarta puntata della lunga intervista con Piero Dominici sul tema della innovazione e del rapporto tra cittadinanza e educazione

L’innovazione è un tema cruciale per far fronte alle sfide della società ipercomplessa e della rivoluzione digitale, ma l’innovazione deve essere inclusiva e costruita dal basso e attraverso la negoziazione e può realizzarsi solo se fondata su sull’educazione e la formazione. Quando l’innovazione è calata dall’alto e segue vie esclusivamente legislative i rischi sono quelli di una “cittadinanza illusoria” e di una “innovazione tecnologica” senza cultura.

Lei ha molto insistito sul concetto di “innovazione inclusiva”, precisando che solo coniugando consapevolmente l’innovazione con l’inclusione sin dalla sua ideazione e progettazione, si possa uscire da forme di “nuovismo” improvvisate e narrate e realizzare concretamente un cambiamento, nella scuola e non solo nella scuola. Vorrebbe chiarire questo fondamentale punto?

Non ci può essere innovazione senza educazione e inclusione
Parto da due presupposti “forti”, su cui ragiono e lavoro da tempo: non c’è – e non ci potrà essere – alcuna innovazione senza educazione…non c’è – e non ci potrà essere – alcuna innovazione senza inclusione.
Come amo ripetere spesso: l’innovazione è processo complesso, anzi è complessità e non è assolutamente scontato che questa determini inclusione e/o che si configuri come un’opportunità per tutti, anzi spesso accade proprio il contrario. Come nel caso della cd. rivoluzione digitale, destinata a rimanere una straordinaria opportunità per pochi (per élites), oltre che a render ancor più evidenti certe distanze e asimmetrie, se non metteremo mano seriamente a educazione e formazione. In questa prospettiva di analisi, è evidente come istruzione, educazione, formazione siano/debbano essere gli assi portanti di un’innovazione che abbiamo definito “inclusiva”, e non semplici “strumenti” che arrivano a valle dei processi di mutamento per correggere traiettorie e discontinuità inattese e/o imprevedibili. Altrimenti, saremo sempre costretti a rincorrere le accelerazioni dell’innovazione tecnologica , con pochissime speranze di raggiungerla e, allo stesso tempo, di metabolizzarne i cambiamenti indotti. I rischi – come dico sempre – rimangono quelli di un’innovazione tecnologica senza cultura e di una illusione della cittadinanza : una cittadinanza e una partecipazione, non negoziate e costruite socialmente e culturalmente all’interno di processi inclusivi, bensì “simulate” e imposte dall’alto senza calarsi, completamente e concretamente, nelle prospettive e nei mondi vitali dei destinatari di queste azioni/strategie. Di coloro che sono chiamati a praticare/esercitare la cittadinanza e la partecipazione, alimentandole, co-costruendone le condizioni strutturali e socioculturali e ri-producendole costantemente.

Sudditi o Cittadini della società ipercomplessa!
Siamo di fronte alla necessità ed all’urgenza di scelte strategiche di lungo periodo anche coraggiose che, nella società interconnessa e ipercomplessa (2003), riguardano sempre più, non soltanto la possibilità di adattarsi e/o gestire il cambiamento (globalizzazione, connettività complessa, rivoluzione digitale, economia e società della condivisione, nuove asimmetrie e disuguaglianze etc. à cfr. anche mia definizione di “società asimmetrica”), ma le stesse opportunità di scegliere tra la “libertà/responsabilità di essere cittadini” e la “libertà/responsabilità di essere sudditi” (Dominici, 2000). Tra partecipazione e libertà di essere sudditi. Nell’utopia di poter andare oltre la libertà di essere sudditi ! Come abbiamo avuto modo di affermare già diversi anni fa, l’ipercomplessità non è – e non è mai stata – un’opzione, è un “dato di fatto”: siamo di fronte ad una ipercomplessità che si è a tal punto estesa da rendere estremamente difficile e complicato qualsiasi tentativo di fornire/formulare schemi di riduzione della stessa. Si tratta di una (iper)complessità ulteriormente accresciuta dalla rilevanza, sempre più strategica, che la comunicazione e l’innovazione tecnologica hanno assunto, non soltanto nei processi educativi e di socializzazione, ma anche e soprattutto nella rappresentazione e percezione di dinamiche e processi evolutivi sistemici che, evidentemente, riguardano da vicino anche la produzione di saperi, di “strumenti” e di conoscenza scientifica, funzionali proprio all’analisi e gestione di questa ipercomplessità, oltre che dell’ imprevedibilità che la connota (-> epistemologia dell’incertezza). Dimensioni problematiche complesse che, anche nel quadro di una progressiva ridefinizione dello spazio della sfera pubblica (globale) e dei confini (saltati) con la sfera privata, condizionano interpretazioni, discorso pubblico e narrazioni egemoni.

Il vero problema è che continuiamo a non essere educati e formati a riconoscere questa ipercomplessità: in altri termini, continuiamo «a vedere gli oggetti come sistemi e non viceversa»*. Un’inadeguatezza sempre più evidente nella società dell’interdipendenza e dell’interconnessione globale: un “nuovo ecosistema” (1996) in cui tutto è (almeno, in apparenza) collegato e interconnesso, all’interno di processi e dinamiche non lineari, con tante variabili e concause da considerare. Una ipercomplessità che – bene chiarirlo ancora una volta – è cognitiva, sociale, soggettiva, etica, e che, investendo ogni ambito della vita e della prassi, ci richiede, conseguentemente, di ripensare le categorie, l’educazione e le “forme” della cittadinanza.
Detto in altri termini, dobbiamo confrontarci con un’ipercomplessità che ci costringe a fare i conti con alcuni urgenze:

  • L’urgenza di superare i vecchi modelli lineari e cumulativi che continuano a segnare in profondità l’articolarsi e la stessa organizzazione dei saperi.
  • L’urgenza, una volta per tutte, di andare oltre le logiche di separazione e di reclusione dei saperi che, di fatto, vincolano i processi educativi e formativi all’interno di dinamiche individualistiche che consentono soltanto la trasmissione dei saperi, e non la loro comunicazione e condivisione.
  • L’urgenza di superare una vecchia idea/visione dell’apprendimento come processo di accumulazione dei saperi in vista di processi di apprendimento sempre più complessi e articolati ma, soprattutto, sempre più orientati verso la cooperazione e la collaborazione.
  • L’urgenza di riorganizzare, non soltanto i percorsi didattico-formativi, incoraggiando interdisciplinarità e multidisciplinarità (fondamentale), bensì ripensando l’intero sistema di pensiero e accrescendo la conoscenza della conoscenza (Morin) aumentando la relativa consapevolezza.

La scuola come organo costituzionale
In termini estremamente semplici: non ci può/potrà essere alcuna “cittadinanza digitale” se, prima, non vengono garantite le condizioni minime della “cittadinanza”, che evidentemente precedono, nella sostanza, le altre e che ne rappresentano la più essenziale delle garanzie. Allo stesso tempo non ci può/non ci potrà essere “vera” innovazione (quella sociale e culturale) senza garantire le condizioni di un’inclusione che non può essere esclusiva (torna la coppia inclusività vs. esclusività). La scuola riveste da sempre un ruolo di vitale importanza per i regimi democratici e lo stesso Piero Calamandrei, in uno storico discorso del 1950 (che ricordo molto spesso), non esita a parlarne addirittura in termini di “organo costituzionale”: «Come voi sapete (tutti voi avrete letto la nostra Costituzione), nella seconda parte della Costituzione, quella che si intitola “l’ordinamento dello Stato”, sono descritti quegli organi attraverso i quali si esprime la volontà del popolo. Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi. Ora, quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue […]. La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente. La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di classe politica, di quella classe cioè che siede in Parlamento e discute e parla (e magari urla) che è al vertice degli organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie».

Parole così chiare e significative da non richiedere ulteriori commenti anche rispetto allo loro straordinaria attualità. Riconosciuta e accettata (?) la rilevanza strategica di scuola e istruzione, dobbiamo tuttavia porci un quesito: possiamo anche soltanto parlare di “cittadini digitali” se prima non educhiamo/formiamo le Persone ad essere, in primo luogo, “cittadini”? E la scuola – lo ripeto – è davvero strategica, più di altre istituzioni formali e informali. Certamente, in questa fase così delicata di mutamento (cambio di paradigma, economia della condivisione, società della conoscenza etc.), la scuola assume un ulteriore, oltre che delicato, ruolo di accompagnamento, mediazione, preparazione e supporto ai cambiamenti determinati dalla rivoluzione digitale. Tale aspetto, peraltro, non può essere assolutamente sottovalutato e pone in primo piano anche la “vecchia”, ma sempre attuale, questione della formazione dei formatori. Tanto per essere (ancor) più espliciti, rispetto all’approccio che propongo ed alla prospettiva che segna i miei studi e le mie ricerche: non c’è e non ci può essere alcuna innovazione senza puntare su educazione e formazione e, allo stesso tempo, non c’è e non ci può essere alcuna innovazione senza inclusione. Questioni di vitale importanza che, ripeto, chiamano in causa anche la “cultura della comunicazione” che dovremo provare a costruire, promuovere, diffondere, accettare, condividere etc. etc.

Cultura della complessità come cultura della responsabilità
E vorrei chiudere le argomentazioni di risposta a questa domanda, con le parole estratte da un’intervista concessa alla rivista VITA, in cui mi si chiedeva di chiarire in che senso la mia visione della “cultura della complessità come cultura della responsabilità” si collegasse al tema cruciale dell’inclusione: «Ci torno spesso: non soltanto è collegato, ma è intimamente collegato. Come ricordo spesso, le “regole d’ingaggio” della cittadinanza (globale) non vengono più definite dal Legislatore, vengono definite e socialmente riconosciute nei luoghi in cui si producono i saperi e la conoscenza; si parla tanto di cittadinanza digitale, ma non esiste alcuna cittadinanza digitale se non sono garantite le condizioni della cittadinanza. E ci sarebbe da fare un lungo discorso anche sul tema della “meritocrazia” che, se non incrociata con altre variabili e inquadrata in un discorso più ampio sull’eguaglianza delle condizioni di partenza, rischia di rimanere la meritocrazia di chi ha più opportunità in partenza. Detto questo, non saranno certamente la tecnologia e il digitale a garantire l’inclusione e la cittadinanza, perché le regole di ingaggio della cittadinanza non sono più scritte dal legislatore. Fino ad ora la “cittadinanza” è stata definita soprattutto come una questione di tipo giuridico, è la legge che definisce e configura i diritti e i principi della cittadinanza che, in molti casi, sono garantiti solo su carta. Ma – ribadisco con forza – i diritti e i valori della cittadinanza, nella società della conoscenza, vengono sempre più scritti e definiti nei luoghi in cui si produce e di distribuiscono informazioni e conoscenza, la scuola e l’università: è lì che si definiscono le regole di ingaggio. Ecco perché una scuola e un’istruzione non di qualità sono i prerequisiti fondamentali per una società che non potrà che essere sempre più profondamente diseguale. Nell’analisi e gestione di questa crisi che stiamo attraversando – perché questo è l’altro elemento di contesto di cui dobbiamo tenere conto – abbiamo sottovalutato variabili e dimensioni culturali: è una crisi solo in parte economica. Non ho fatto citazioni accademiche per tutta la nostra conversazione, ma qui è necessario: Max Weber diceva che il mercato, se lasciato alla sua autonormatività, conosce soltanto una dignità della cose e non una dignità della Persona. Questa è la sfida ulteriore. Ecco perché è necessario e urgente mettere mano all’educazione e alla formazione. Con la Cultura, sono da sempre gli unici veri agenti di una cittadinanza (ormai globale) e di una democratizzazione dei processi sociali che, per ora, sono soltanto raccontate, immaginate e riconosciute “su carta”.

Per ulteriori spunti e approfondimenti su tali questioni collegate, rimando, ancora una volta, ad alcuni contributi per Il Sole 24 Ore proprio sulla “società asimmetrica”:

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L'Autore


Gianfranco Marini
Gianfranco Marini cerca di insegnare storia e filosofia nel liceo scientifico "G. Brotzu" di Quartu Sant'Elena (CA). È laureato in filosofia all'Università di Cagliari e in Tecnologia della comunicazione multimediale all'Università di Ferrara. Dal 2005 sperimenta l'utilizzo del Web e delle tecnologie digitali nell'apprendimento secondo la modalità del Blended Learning. Gestisce Aulablog e un canale YouTube, entrambi strumenti per la didattica digitale e disciplinare. Cura la rubrica AulaMagazine su scoop.it dedicata alle Tecnologie dell'apprendimento e della conoscenza.
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