Quinta e ultima “puntata” dell’intervento di Piero Dominici che esamina come si configura la relazione tra docente, discente e discipline entro il paradigma della complessità

Il prendersi cura come punto focale di una ridefinizione del rapporto tra docente e discente, che da trasmissivo diviene multiforme (insegnare, educare, formare implica l’apprendere, il condividere, il cooperare, il collaborare, il confrontarsi e il dialogare) e chiama in causa l’apertura all’ALTRO da NOI e il mettersi in gioco da entrambe le parti.

Domanda: La ridefinizione della relazione tra discente e docente, su cui lei pone l’accento, dovrebbe comportare un diverso modo di porsi da parte del docente fondato sul “prendersi cura” dell’altro e su una autorevolezza che nasce dalla corrispondenza tra il “dire” e il “fare”. Quale significato e importanza rivestono questi aspetti?

Ripensare lo spazio relazionale e comunicativo…
La “questione educativa e culturale”, qui più volte richiamata, è legata come detto anche, e soprattutto, ad un problema di interruzione/crisi della comunicazione tra le generazioni (concetto che andrebbe sciolto e sviluppato). Tuttavia, in questa prospettiva di analisi, non possiamo non registrare come i media, i social, i nuovi ambienti comunicativi – insieme con il famoso “gruppo dei pari” – si siano letteralmente divorati lo spazio relazionale, comunicativo e del sapere (?) gestito, in passato, della tradizionali istituzioni e agenzie educative e formative. E, in questa situazione, così delicata e in continua evoluzione, gli attori sociali e le professionalità protagoniste del processo educativo e formativo vedono ulteriormente accresciute le loro responsabilità, anche e soprattutto in termini di gestione e sviluppo dei nuovi spazi relazionali e comunicativi. Sono forse radicale, ma preferisco sempre dire apertamente ciò che penso: nella consapevolezza che, in questi ultimi decenni, scuola e università sono state pesantemente penalizzate da tagli e controriforme, continuo a rimanere (profondamente) convinto che ci siano lavori/professioni che andrebbero fatti/scelti anche, e soprattutto, perché si avverte/esiste/viene riconosciuta (e valutata?) una “vocazione”; si tratta di quei mestieri/lavori/professioni in cui “al centro” ci sono davvero le Persone, la loro crescita, la loro maturazione non soltanto intellettuale, lo sviluppo delle loro conoscenze e competenze, lo sviluppo delle loro capacità relazionali e sociali.
Si tratta di quei mestieri/lavori/professioni che non possono essere scelti soltanto per una forma di prestigio sociale e/o perché permettono magari, in qualche modo, di esercitare forme di micropotere sugli Altri. Lo stesso concetto di “Prendersi cura” di una Persona è un concetto complesso, che implica la capacità, e la necessaria cultura, oltre che sensibilità e capacità di empatia, di attivare dinamiche sociali e relazionali che non possono che essere/rivelarsi sistemiche e, a loro volta, complesse.
Prestando particolare attenzione ai soggetti (almeno apparentemente) più deboli, che rischiano concretamente di rimanere indietro, alimentando un circuito vizioso che sta facendo crescere drammaticamente nuove forme di disuguaglianza e nuove asimmetrie sulle quali siamo tornati più volte, anche nel corso di questa intervista. In altri termini: insegnare, educare, formare implica l’apprendere, il condividere, il cooperare, il collaborare, il confrontarsi e il dialogare; e tutto ciò, evidentemente, significa soltanto in minima parte trasmettere e/o impartire nozioni, magari con un atteggiamento poco aperto e inclusivo, che un domani potrebbero rivelarsi “utili” per chi le ha introiettate e metabolizzate. Insegnare, educare, formare significa, a mio avviso, soprattutto incontrare e aprirsi all’ALTRO DA NOI, cercare il dialogo e il confronto, non smettere mai di porsi domande e di apprendere, essere consapevoli delle tante variabili e concause che entrano in gioco nei processi educativi e formativi, rendendoli di fatto complessi, multidimensionali e aperti ad un’incertezza e imprevedibilità che costituiscono il “vero” valore aggiunto ed un elemento di ricchezza dal valore inestimabile, sempre a patto che si sia in grado, concretamente, di valorizzarli e renderli valore comune e condiviso. Sempre in questa linea di discorso, oltretutto, sappiamo bene come i figli, gli studenti e, più in generale, i giovani – come dire – ti aspettino al varco, osservino “come ti comporti” (come Persona, e non soltanto come educatore, insegnante, professore, formatore etc.), ben al di là di ciò che dici e insegni loro. Insomma, contano i “fatti”, non le “parole”. Al di là di conoscenze e competenze, conta – e molto – appunto il nostro desiderio di metterci in gioco e di incontrarli e conoscerli, di “ascoltare” (processo tutt’altro che semplice e scontato) e comprendere i loro vissuti, le loro incertezze, le loro aspirazioni, le inquietudini e, perfino, i sogni; e tutto questo, deve (dovrebbe) accadere anche nel quadro di uno spazio educativo e formativo, comunicativo e relazionale, più o meno fortemente codificato come quello di certe istituzioni educative e formative. Proprio così: “prendersi cura di …”. Per queste (e altre) ragioni, parlo da tanti anni, dell’urgenza di ripensare gli spazi relazionali e comunicativi, in modo particolare, delle istituzioni educative e formative (ma il discorso può essere applicato a tutto il mondo del lavoro e a tutti i tipi di organizzazioni). La “tua” (nostra) credibilità e autorevolezza si fonda sui comportamenti e sulla loro coerenza rispetto a quanto affermiamo (problema che riguarda anche la politica). Se chiedi “ascolto”, devi ascoltare e saper ascoltare; se chiedi correttezza, devi essere corretto per primo; se pretendi rispetto e senso di responsabilità, devi prima di tutto essere rispettoso dell’Altro e responsabile verso l’Altro etc., anche se la relazione è asimmetrica a causa del ruolo e della gerarchia. E, come ripeto sempre, non puoi fingere, non nel lungo periodo. Ecco perché certi “ruoli” e certe “attività” richiedono, a mio avviso, una profonda consapevolezza delle responsabilità e delle implicazioni legate ai processi educativi e formativi; ma richiedono anche partecipazione, passione, capacità comunicative (non tecniche) e relazionali, empatia. E’ necessario “mettersi in gioco”, fondamentale il coinvolgimento, sempre puntando sull’inclusione dell’ALTRO.

Teste “ben fatte” per il nuovo ecosistema cognitivo
Fondamentale, quindi, ripartire da educazione e istruzione, basandole però su una ridefinizione della “qualità” della relazione tra gli attori dell’ecosistema formativo e comunicativo – nel rispetto dei reciproci ruoli (genitore, insegnante, docente etc.) – oltre che, evidentemente, sulla preparazione e sulle competenze. E, nel lungo periodo, per far questo abbiamo bisogno di “teste ben fatte”(Montaigne), e non di “teste ben piene”, che sappiano organizzare le conoscenze e individuare i livelli di connessione all’interno del nuovo ecosistema cognitivo (2005). Altrimenti non si tratterà di “vera” innovazione, cioè quella sociale e culturale. E, come scrissi qualche anno fa, sarà la “società dell’ignoranza” e dell’incompetenza (non solo digitale…).

Lo spazio del sapere come spazio relazionale
Come scrivevo anni fa: «Di fondamentale importanza, in tal senso, ridefinire lo spazio del sapere e ripensare lo “spazio relazionale” (1996 e sgg.), all’interno del quale si costruiscono le identità – che non sono mai date una volta per tutte…in costante divenire – e le soggettività: “costruzioneche avviene attraverso il dialogo, la conversazione, la reciprocità, l’empatia, la comunicazione = processo sociale (complesso) di condivisone della conoscenza (potere). Siamo sempre un “NOI” e non un “IO” (identità <-> riconoscimento), anche se non ne siamo consapevoli**. Esistiamo, sempre e comunque, all’interno di un sistema di reti di conversazione e comunicazione. Pensiero critico ed educazione alla complessità, da subito: la via per le #TestebenFatte. Perché conoscere/sapere è vivere e viceversa e tali dinamiche nascono e si evolvono, sempre e soltanto, attraverso gli ALTRI, in chiave sistemica, oltre che relazionale**. Livello “micro” (quello delle relazioni e dell’interazione sociale) e livello “macro” (quello delle organizzazioni, dei sistemi, degli Stati-nazione etc.), non soltanto non sono separati, ma si influenzano reciprocamente e sono in costante connessione e relazione…un duplice livello di analisi** che, come ripetuto tante volte negli anni, richiede approccio alla complessità e una prospettiva sistemica (superamento del principio di causalità, di qualsiasi forma di determinismo mono-causale e riduzionismo; tante le concause e molteplici le variabili da considerarsi; sistemi e organizzazioni evolvono e si differenziano non in maniera lineare etc.). La sfida della e alla complessità ci chiede di ripensare educazione e istruzione, in maniera profonda, radicale. Significa ripensare gli stessi concetti di “libertà”, di “comunità” e, conseguentemente, di “democrazia” e, per arrivare alla stretta attualità, ripensare la nostra idea di Paese, di Europa, di Umanità (parlavo dell’urgenza di un “nuovo umanesimo”, esattamente, vent’anni fa…). Può sembrare la più classica delle lotte contro i mulini a vento…non è così e va portata avanti!»

Per altri spunti e ulteriori approfondimenti rinvio ad alcuni contributi:

Rimettere la Persona al centro – Il Sole 24 Ore
Il diritto alla filosofia per ripensare l’educazione, la cittadinanza e l’inclusione –Il Sole 24 Ore
Innovazione e domanda di consapevolezza: la filosofia come “dispositivo” di risposta alla ipercomplessità – Il Sole 24 Ore – estratto da paper discusso a congresso internazionale
Il grande equivoco. Ripensare l’educazione (#digitale) per la Società Ipercomplessa – Il Sole 24 Ore
Tra etica ed etichetta: l’urgenza di una “nuova cultura della comunicazione”  – Il Sole 24 Ore
Un Nuovo Umanesimo per la Società Interconnessa – intervista concessa a Marco Minghetti de Il Sole 24 Ore

La necessità di un Nuovo Umanesimo come educazione alla complessità e superamento dei tradizionali dualismi del sapere, si deve concretizzare nella formazione al pensiero critico e di teste ben fatte.

Le due culture
Domanda: Quali sono i danni che produce la separazione tra le “due culture” e in che senso un “nuovo umanesimo” dovrebbe portare al superamento di questa “falsa dicotomia”?

Amo ripetere spesso: possiamo anche fingere di non accorgercene, ma i “vecchi” confini tra formazione scientifica e formazione umanistica (appunto, tra le cd. “due culture”) sono completamente saltati, in conseguenza delle straordinarie scoperte scientifiche e delle continue accelerazioni indotte dall’innovazione tecnologica che rendono ancor più ineludibile l’urgenza di un’educazione/formazione alla complessità e al pensiero critico (logica). Tuttavia, le resistenze ad un cambiamento così radicale di prospettiva (modelli, pratiche e strumenti) sono fortissime, arrivano soprattutto dai “luoghi” ove si produce e si elabora conoscenza e sono legate a motivazioni di diversa natura: logiche dominanti, modello sociale feudale, questione culturale, primato della politica in tutte le dimensioni, familismo amorale, culture organizzative, climi d’opinione etc. Fondamentalmente, soprattutto perché, come affermato in tempi non sospetti, in qualsiasi campo della prassi individuale e collettiva, innovare significa mettere in discussione saperi e pratiche consolidate, immaginari individuali e collettivi, rompere equilibri, spezzare le catene della tradizione (cit.), abbandonare il certo per l’incerto con rischi (opportunità), anche percepiti, notevolmente superiori. In altre parole, rendere, almeno temporaneamente, più vulnerabili i sistemi e lo spazio comunicativo e relazionale che li caratterizza. Una questione strategica e decisiva per il complesso processo di costruzione, sociale e culturale, della Persona e del cittadino e, quindi, dello spazio pubblico, che riveste un ruolo di fondamentale importanza anche in considerazione del costante e rapido mutamento del contesto, locale e globale, di riferimento (Società Ipercomplessa).

Innovazione Tecnologica e Pensiero Critico
In tal senso, continuo ad esser convinto, e su questo approccio ho sviluppato le mie ricerche, che l’innovazione tecnologica costituisca da sempre un fattore strategico di cambiamento dei sistemi sociali e delle organizzazioni ma che questa, se non supportata da un pensiero critico (oltre che sistemico) e da una cultura della complessità ma, soprattutto, a livello pratico e operativo, da politiche di lungo periodo in grado di innescare e supportare il cambiamento culturale (centralità strategica di scuola, istruzione, università), si riveli sempre una straordinaria opportunità per pochi e/o, per meglio dire, per élite più o meno illuminate. Da questo punto di vista, pagheremo ancora a lungo la sostanziale inadeguatezza dei nostri percorsi didattico – formativi, tuttora progettati e realizzati sulla miope, oltre che disastrosa, separazione tra le “due culture”, quella scientifica e quella umanistica; una separazione che, almeno per ora, viene contrastata solo “a parole”, sia a livello scolastico che universitario. Da questo punto di vista, per ciò che concerne quella che ho definito “la società interconnessa e iperconnessa”, l’orizzontalità e la democraticità delle procedure e dei sistemi non possono/non potranno essere garantite in alcun modo dalla tecnologia in sé e per sé, dal momento che a fare la differenza sono, e saranno, sempre il fattore umano e la qualità delle relazioni sociali e dei legami di interdipendenza, dentro e fuori i sistemi sociali; dentro e fuori le organizzazioni complesse.

Cambiamento culturale come vettore del cambiamento sociale
Perché questo è il livello cruciale del cambiamento culturale che è in grado, nel lungo periodo, di innescare e accompagnare quello economico, politico, sociale
. E, come dico sempre, non c’è alcuno spazio per l’improvvisazione e/o le scorciatoie: il livello strategico è quello concernente i processi educativi (la scuola, sopra ogni cosa, e le altre agenzie di socializzazione).
Perché, la questione è culturale e riguarda, in primo luogo, l’educazione, anche alla libertà che comporta responsabilità! E, oltre alla dimensione sociale, relazionale, etica, i nostri giovani – fin dai primi anni di scuola – hanno sempre più bisogno di conoscere, vivere, praticare e applicare la “logica” (all’università è davvero difficile modificare una forma mentis già strutturata; p.e. insegnare a sviluppare/verificare logicamente le argomentazioni); hanno un disperato bisogno (scusate la ripetizione) di un “metodo” con il quale pensare, ragionare, sintetizzare, dare sistematicità alle tante (troppe?) informazioni ricevute (filosofia); di una formazione alla complessità e al pensiero critico, che appunto formi ed educhi – quasi “addestri” – ad individuare le connessioni tra i fenomeni e i processi, tra i saperi e la vita vissuta…che metta in condizione, per esempio, di valutare criticamente le origini storico-sociali di norme e modelli culturali, di riflettere e distinguere ciò che è “natura” da ciò che è “cultura” e frutto di convenzione (dicotomia che andrebbe superata una volta per tutte!); di riconoscere nella diversità e nel pluralismo dei “valori” fondamentali e non dei “pericoli”. Come scritto anche in passato, per realizzare obiettivi così complessi, servono politiche di lungo periodo e un rilancio in grande stile degli studi umanistici e della formazione umanistica, a tutti i livelli (scuola, università, ricerca etc.), provando magari a superare una volta per tutte – anche se tutt’altro che semplice – quelle che ho chiamato le “false dicotomie” (teoria vs. ricerca/pratica; formazione scientifica vs. formazione umanistica; conoscenze vs. competenze; hard skills vs. soft skills); il resto arriverebbe quasi di conseguenza.

Formazione umanistica e teste ben fatte
La formazione umanistica insegna a pensare con la propria testa ma, soprattutto, insegna a pensare con quella degli altri, con quella di coloro che hanno modelli culturali differenti. Da questo punto di vista, anche l’acquisizione e il possesso delle cd. competenze tecniche e digitali (assolutamente importanti, chiariamolo) avrebbero ricadute ancor più significative su “teste ben fatte”, criticamente formate e curiose della complessità che le circonda. Serve urgentemente un “nuovo Umanesimo” che ponga la Persona, la sua formazione e la sua relazione con l’altro, al centro (rinvio anche ad altri post, oltre che a saggi pubblicati). Ad essere in gioco sono le identità e le soggettività e, in questa prospettiva, non possiamo non rilevare l’assenza di modelli teorico-interpretativi e, più in generale, culturali adeguati al mutamento in atto, oltre che la sostanziale inadeguatezza dei percorsi didattico-formativi scolastici e universitari. Ormai sembrano tutti d’accordo (meglio tardi che mai!) nell’esaltare il valore del pensiero critico e di un’educazione/formazione alla complessità ma, per il momento, l’impressione è che si tratti di formule e slogan di successo, parole-chiave che non possono non essere adottate. Il problema è che mancano le azioni/strategie corrispondenti, che non possono che essere di lungo periodo, anche perché la Politica, da sempre, pensa al “breve periodo” e persegue altre logiche.

La società interconnessa e le sue sfide
Come ho avuto modo di affermare più volte, la Società Interconnessa (e ipercomplessa) determina un vero e proprio mutamento rivoluzionario di tutte le dinamiche socio-politiche e dei processi produttivi e culturali: capitale intellettuale e produzione e distribuzione della conoscenza ne sono i punti di forza. Si tratta di un’ennesima e straordinaria rivoluzione tecnologica, le cui origini vanno ricercate negli ultimi decenni dell’Ottocento, generata dal rapido progredire dell’industrializzazione che aveva determinato, già allora, una crisi di controllo, a cui la società dell’informazione e della conoscenza sembra aver offerto delle (possibili) soluzioni (informazione – conoscenza – gestione del rischio / complessità / imprevedibilità – controllo – fiducia). Una rivoluzione realizzata attraverso il potenziamento dei mezzi di informazione e comunicazione, che si sono mostrati in grado –  in primo luogo – di governare l’economia mondializzata; una rivoluzione che sta determinando uno sconvolgimento senza precedenti nella storia dell’evoluzione dei sistemi sociali, che anche lo stesso James Beniger associa opportunamente alla definizione di rivoluzione del controllo (il vero “motore” della società dell’informazione). Si tratta di un complesso processo consistente nel «rapido mutamento delle circostanze tecnologiche ed economiche che permettono di raccogliere, conservare, elaborare e comunicare le informazioni e di esercitare il controllo sociale attraverso decisioni formali o programmate. Iniziata negli ultimi decenni dell’Ottocento, la rivoluzione del controllo è proseguita ininterrottamente fino ai giorni nostri, accelerando la sua marcia proprio in epoche recenti grazie allo sviluppo delle tecnologie dei microprocessori. Per le conseguenze di ordine intellettuale, culturale e materiale, la rivoluzione del controllo ha nella storia di questo secolo un’importanza paragonabile a quella della rivoluzione industriale nel secolo precedente. Ma la storia non è in grado di spiegare perché proprio l’informazione abbia assunto un ruolo di primo piano all’interno dell’economia e delle società contemporanee. La risposta a questo interrogativo va ricercata nella natura di tutti i sistemi viventi, e cioè nel rapporto esistente tra informazione e controllo. La vita stessa, in ultima analisi, è un problema di controllo, tanto nelle cellule e negli organismi quanto nelle economie nazionali o negli altri sistemi con finalità […] Visto da questa prospettiva, l’effetto di gran lunga più determinante dell’industrializzazione diventa la velocità impressa all’intero sistema di elaborazione materiale. Tale velocità ha condotto la società verso quella che ho chiamato crisi di controllo: un periodo durante il quale le innovazioni nel campo delle tecnologie di elaborazione delle informazioni e di comunicazione hanno segnato il passo rispetto alle innovazioni nel settore energetico e nell’applicazione dell’energia alle attività produttive e ai trasporti».  Le reti elettroniche e i nuovi ecosistemi sociali e digitali favoriscono una comunicazione (connessione) planetaria quasi istantanea anche se la transizione verso la società globale dell’informazione/comunicazione (infocosmo) non riesce, ancora, a fornire adeguate garanzie in termini di concreta apertura dei sistemi e di innovazione sociale/culturale, con dinamiche che oscillano tra il caos e l’ordine, tra l’inclusione e l’esclusione. Processi dialettici e ambivalenti che non trovano un momento di sintesi e rendono drammaticamente evidente l’assenza di un modello teorico-interpretativo adeguato in grado di abbracciare l’ipercomplessità, definendo nuovi problemi e non soltanto soluzioni, nuove domande e non soltanto risposte. Ancora poca la consapevolezza rispetto al fatto che qualsiasi attività pratica e di ricerca non possa che essere concettualmente orientata. E, in tal senso, non faremo molto strada finché non si uscirà da quelle che, già diversi anni fa, avevo chiamato le “false dicotomie”: teoria vs. ricerca/pratica; formazione scientifica vs. formazione umanistica; conoscenze vs. competenze; hard skills vs. soft skills.

Ripensare la relazione tra naturale e artificiale
Anche perché siamo di fronte ad una ipercomplessità che – come ripetuto più e più volte in passato – vede l’evoluzione culturale ormai in grado di condizionare quella biologica: ciò richiede un cambiamento di paradigma che trova il suo punto d’appoggio, la sua “leva” fondamentale, nell’urgente necessità di ridefinire (o, finalmente, abbattere!) i confini tra naturale e artificiale, tra umano e non-umano, tra mente (individuale, collettiva) ed ambiente, tra sistemi e nuovo ecosistema etc.
Occorre, pertanto, essere consapevoli – non soltanto a parole e nel discorso pubblico – che il futuro (come ripetiamo sempre, la “vera” innovazione, quella sociale e culturale) è di chi riuscirà a ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico, di chi riuscirà a ridefinire e ripensare la relazione complessa tra naturale e artificiale; di chi saprà coniugare (non separare) conoscenze e competenze; di chi saprà coniugare, di più, fondere le due culture (umanistica e scientifica) sia a livello di educazione e formazione, che di definizione di profili e competenze professionali (sulle competenze: non mi stancherò mai di ripeterlo…sono necessarie sia le hard che le soft skills). Facendo attenzione alle continue tentazioni delle vie brevi, delle soluzioni semplici, delle strade giù percorse e, per questo, rassicuranti che spesso nascondono soltanto interessi economici e di potere, visioni ideologiche rese ben visibili, oltre che accettabili e condivisibili, attraverso un’incessante attività di promozione e marketing degli eventi. Questa, la definizione che abbiamo sempre utilizzato: “Innovare significa destabilizzare”. Ma occorre, prima di tutto, educare e formare criticamente le persone a pensare con la loro testa e a vedere gli “oggetti” come “sistemi” (e non viceversa)**. #CitaregliAutori

Per ulteriori spunti e approfondimenti, rinvio ad alcuni contributi:
1. Piero Dominici, Competenze e saperi per la società interconnessa: le due culture e la complessità  Il Sole 24 Ore
2. Piero Dominici, Per un’innovazione inclusiva: ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico,  TechEconomy

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L'Autore


Gianfranco Marini
Gianfranco Marini cerca di insegnare storia e filosofia nel liceo scientifico "G. Brotzu" di Quartu Sant'Elena (CA). È laureato in filosofia all'Università di Cagliari e in Tecnologia della comunicazione multimediale all'Università di Ferrara. Dal 2005 sperimenta l'utilizzo del Web e delle tecnologie digitali nell'apprendimento secondo la modalità del Blended Learning. Gestisce Aulablog e un canale YouTube, entrambi strumenti per la didattica digitale e disciplinare. Cura la rubrica AulaMagazine su scoop.it dedicata alle Tecnologie dell'apprendimento e della conoscenza.
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