Rimettiamo al centro la Didattica
La recente proliferazione di applicativi e devices didattici è senza dubbio un’ottima opportunità pedagogica, a patto che si riesca ad individuare in modo preciso obiettivi, metodi e strategie didattiche coerenti, in altre parole è necessaria una visione pedagogica da un lato ed una corretta implementazione tecnologica dall’altro. La mancanza di una delle due componenti rischia di compromettere l’efficacia didattica dell’intero progetto educativo.
La recente proliferazione di device multimediali, affiancata dalla diffusione di applicativi didattici, sono senza dubbio una ottima opportunità per la scuola italiana. Solo dieci anni fa, quando la connessione ad internet nelle scuole era piuttosto rara e device mobili solo una strana ipotesi, sarebbe stato inimmaginabile condurre una lezione attraverso un tablet, assegnare compiti da smartphone ed inserire compiti e valutazioni in un registro online. Oggi tutto questo, grazie anche al Piano Nazionale Scuola Digitale, oltre che alla disponibilità dei docenti, è realtà. Non abbiamo stime scientifiche ma è realistico pensare che almeno un terzo dei docenti utilizzi in modo massiccio le tecnologie didattiche, una buona metà sia supportata in senso lato dalle “nuove” tecnologie per la preparazione delle lezioni, e la pressochè totale compagine del corpo docente italiano abbia una qualche familiarità con posta elettronica e smartphone.
Come definire questi numeri? A mio avviso con una parola: enorme potenziale! Si perché se consideriamo quello che oggi può essere implementato e svolto con le nuove tecnologie, a costi nel complesso contenuti, ci rendiamo conto di essere davanti al più grande potenziale didattico degli ultimi anni. D’altro canto, a voler vedere lo stesso fenomeno da una prospettiva meno ottimista, dovremmo anche considerarne i rischi cioè a dire la trasformazione della didattica in un immenso parco giochi, indubbiamente affascinante (non solo per gli alunni, come ovvio, ma anche per i docenti!) ma pedagogicamente povero o, peggio ancora, insignificante. In altre parole la sfida è questa: siamo all’altezza del potenziale tecnologico che sta dentro le nostre tasche? Per dirla con un noto paragone: se con la tecnologia di un commodore 64 siamo andati (letteralmente) sulla luna, dove potremmo andare con la “stazione di comando” che quotidianamente usiamo per inviarci simpatici messaggi whatsup?
La domanda non è peregrina e presenta più insidie di quante non appaiano ad un primo sguardo. Istintivamente, infatti, molti docenti, tra cui il sottoscritto, sarebbero disposti a rispondere che col potenziale delle nuove tecnologie siamo già in grado di portare in aula una “didattica innovativa”, ma è davvero così? Se proviamo ad interrogarci su quanto ci permettono le nuove tecnologie e, in particolare, i device mobili e gli applicativi didattici, dovremmo concludere, ad essere onesti, che essi ci permettono di svolgere le “tradizionali” attività ma in modo più rapido, più accattivante, più “mobile”. Basta tutto questo per parlare di “innovazione”? O stiamo semplicemente parlando di “novità”? Oppure, per usare un linguaggio ancora più cinico, non rischiamo soltanto di “elettrificare un cartaceo” in questo immenso circo mediatico che chiamiamo “didattica 2.0”? Naturalmente a ciascuno la sua risposta, ma il dubbio oltre ad essere legittimo è pure doveroso.
Atteso dunque che le tecnologie, nella stragrande maggioranza di casi, permettono le medesime cose che consente la didattica 1.0 ma in modo più “smart” (che non vuol dire pedagogicamente efficace), dobbiamo chiederci: la nostra “pedagogia” è al passo con la nostra “tecnologia”? Che è come chiedersi: siamo all’altezza dal punto di vista della riflessione didattica del potenziale tecnologico in nostro possesso? La mia risposta è: quasi mai! Sì perché il fatto stesso di utilizzare un tablet connesso ad una rete wifi per inserire i compiti nel registro online dà, innegabilmente, la percezione e l’illusione di fare “qualcosa di innovativo”, malgrado si tratti semplicemente di “qualcosa di nuovo”, e la differenza è notevole.
Dinnanzi a questa domanda come può un docente, intellettualmente onesto, capire se ciò che sta facendo è solo il portato dei tempi, cioè a dire una didattica 1.0 con strumenti 2.0, oppure se sta dando il suo faticoso contributo ad una, seppur minima, innovazione? La risposta, come in tutte le questioni importanti, non è né semplice né immediata e, per sgombrare il campo a facili illusioni, chi scrive non ha in ogni caso, ad oggi, questa risposta. Si può tuttavia indicare una strada, percorrerla con serietà, vedere dove porta e alla fine del processo trarre qualche provvisoria conclusione. Ed è quello che proveremo a fare ora qui.
Vediamo, una prima verifica per comprendere se ciò che stiamo facendo sia effettivamente all’altezza delle nuove tecnologie potrebbe essere chiedersi: l’attività che sto svolgendo è fattibile con carta e penna? O, per dirla come va di moda, è possibile “unplugged”? Se la risposta è no siamo forse sulla strada giusta; se la risposta è si non dobbiamo scoraggiarci, le tecnologie possono anche essere un “acceleratore” di processi, l’importante è chiamare le cose col proprio nome.
Continuando su questa linea potremmo poi porci il seguente interrogativo: quanto è stato efficace ciò che hanno svolto i miei studenti col supporto delle “nuove” tecnologie? Anche in questo caso potremmo rispondere “poco o nulla”, il che non significa che l’attività didattica non sia meritoria in sè, semplicemente può voler dire che stiamo investendo troppo (in termini di infrastruttura, device, connessione e ambienti) per un progetto che forse dovrebbe lasciare spazio ad altro.
A questo punto un docente inizia ad avere uno schema di riferimento ed un punto di vista critico sulle tecnologie; l’aspetto però epistemologicamente interessante è che tale docente sta rivolgendo uno sguardo “critico” verso le nuove tecnologie, in un periodo in cui lo “spirito del tempo” pare solo celebrarle, e non è cosa da poco. A tal proposito ci vengono in soccorso molti modelli di analisi, pensiamo al noto “s.w.o.t.” (acronimo che sta per “strengths”, “weaknesses”, “opportunities”, “threats” cioè “punti di forza”, “punti di debolezza”, “opportunità”, “rischi”) oppure al più specifico “s.a.m.r” (altro acronimo che sta per “substitution”, “augmentation”, “modification”, “redefinition” che sono i livelli progressivi che indicano un sempre più innovativo uso delle tecnologie in classe).
Ma cosa fare se la risposta alle precedenti domande riconosce, in onestà, che le tecnologie non stanno aggiungendo nulla di nuovo alle attività didattiche che proponiamo ai nostri ragazzi? Una risposta può essere in quello che gli anglosassoni chiamano “instructional design”.
Di che si tratta? Una traduzione approssimativa potrebbe essere “progettazione didattica”, giacchè la parola “design” in italiano è ancora molto poco diffusa in ambito didattico (cosa che renderebbe quanto meno acerba una traduzione di tal genere “disegno didattico”). Stando ad una celebre definizione, l’ “instructional design” consiste in un “sistematico processo che viene impiegato per sviluppare programmi di istruzione e formazione in modo coerente e affidabile” [“a systematic process that is employed to develop education and training programs in a consistent and reliable fashion” Reiser, Dempsey, 2007]. Detto in questi termini sembra una modalità utile unicamente a costruire ampli programmi di studio e curricula, in realtà stando a quanto ci insegna Merril l’ “instructional design” è pure un “quadro di riferimento per lo sviluppo di moduli o lezioni” [“a framework for developing modules or lessons” Merril, Drake, Lacy, Pratt, 1996]. In altre parole l’ “instrucional design” opera sia a livello macro (to develo education and training programs) che a livello micro (framework for developing modules or lessons). Ed è proprio il livello micro che coinvolge il singolo docente interessato a tirare fuori il massimo dall’uso delle tecnologie didattiche.
È del resto innegabile che, grazie alle centinaia di applicazioni didattiche in uso presso molti insegnanti di ogni ordine e grado, si perda talora di vista l’obiettivo pedagogico da un lato, e il controllo dello strumento dall’altro; presi dagli ultimi ritrovati tecnologici (sia hardware che software) dimentichiamo che il focus è la pedagogia e, ad un livello più operativo, la didattica. Se pertanto decidiamo di non usare bulimicamente ogni app segnalata dal nostro gruppo facebook preferito e ci concentriamo solo su un paio di esse (senza contare che molte non sono altro che infinite varianti di altre ancora), scopriremo i vantaggi ed i meriti dell’ “instructional design”, vale a dire il portato positivo della “progettazione didattica” e il controllo di ogni minima parte del processo.
Giusto per accennare alcuni aspetti dell’ “instructional design” potremmo, ad esempio, interrogarci sulla bontà di una app didattica che ospiti, al suo interno, ads publicitari; potremmo poi valutare l’impatto di determinati fonts piuttosto che altri in uso in una determinata applicazione multimediale; allo stesso tempo avremmo modo di riflettere sulla scelta dei colori che è stata operata in un determinato ambito educativo; infine si potrebbe discutere sul fatto che alcuni obiettivi didattici sia più economico raggiungerli in altre modalità piuttosto che in quelle 2.0.
L’ “instructional design”, dunque, lungi dall’essere un vezzo esteriore, è davvero una “progettazione profonda” di ogni aspetto della didattica, specie quella multimediale, su cui il docente ha massima libertà di azione; mi riferisco alla didattica multimediale e 2.0 e non a quella cartacea 1.0 poiché di norma quest’ultima è realizzata dai libri di testo che il docente, di norma, ha solo libertà di scegliere ma non modificare (quante volte avremmo voluto cambiare il confusionario layout di una pagina di un testo di nostra adozione).
Il lavoro di “instructional design”, tuttavia, non è né immediato né semplice (come non lo è nessuna cosa degna di una qualche importanza); esso richiede studio innanzi tutto, poi una continua analisi degli strumenti, inoltre un costante ascolto del feedback degli studenti, specie se siamo noi a realizzare, in toto, un modulo didattico 2.0, in capo al quale ci sono numerose e significative scelte in termini pedagogici, didattici e di usabilità.
Emiliano Onori
L’attenzione per l’instructional design nasce dal timore che gli insegnanti commettano l’errore di considerare la didattica digitale come il mero utilizzo di strumenti digitali, perdendo di vista la progettazione e i contenuti. Questa prospettiva a mio parere non è realistica: gli animatori digitali devono coinvolgere i colleghi, proponendo idee e strumenti utili per innovare la didattica, non devono insegnare ai colleghi come si programma, perché lo sanno già fare bene anche senza i criteri di Merril e Gagné. Un insegnante non impiegherà mai uno strumento digitale prescindendo dai contenuti e da una opportuna progettazione. Questo timore è stato generato dalla esibizione compulsiva di strumenti digitali sempre nuovi e spesso fini a se stessi da parte di docenti appassionati, spesso animatori digitali. Questo atteggiamento compulsivo non è seguito anche dai docenti in classe, che hanno un interesse diverso da quello dei ricercatori, cioè applicare idee nuove che migliorino gli esiti degli studenti. In sintesi, gli AD devono fornire idee e strumenti per innovare, gli insegnanti devono costruire contenuti didattici ben programmati avvalendosi di quegli strumenti